ALTRI ENIGMI

Dal libro di Silvana Zanella, ENIGMA – La preghiera al Padre tra retorica e cosmologia, le soluzioni di altri famosi enigmi del passato.

L’ENIGMA DI SANSONE

Anche nella Bibbia gli enigmi venivano considerati depositari di un’antica conoscenza sapienziale, ed era considerato saggio sia colui che li proponeva sia colui che li risolveva.

Un famoso enigma biblico è quello assai criptico che il possente Sansone propose ai suoi invitati durante un banchetto:

Dal divoratore è uscito del cibo, e dal forte è uscito il dolce.

Solo sua moglie Dalila riuscì a farsi dire la soluzione, ma la raccontò poi agli avversari del marito rivelando il suo tradimento, tanto che Sansone disse adirato:

“Se non aveste arato con la mia giovenca, non avreste risolto il mio enigma.”

Si ritiene che nell’enigma Sansone parlasse di un’esperienza da lui vissuta nella quale, durante la caccia, aveva ucciso un leone. Tornato dopo qualche tempo nello stesso luogo, trovò dentro la carcassa dell’animale uno sciame di api e mangiò il loro miele.

Il miele” è quindi la soluzione dell’arcano, come ben si sa.

Recenti studi sul simbolismo cristiano inducono, però, a pensare che dietro le parole di Sansone si nascondessero significati metaforici.

Secondo lo studioso francese Jean Hani[1] l’enigma si riferirebbe ad un antichissimo mito, quello di Aristeo, raccontato successivamente anche da Virgilio nelle Georgiche (IV 294 ss.). Il miele che Sansone aveva mangiato e le api nate nel corpo di un animale sacrificato rappresenterebbero, metaforicamente, la morte e la rinascita sotto diversa forma. Un tema universale nascosto dietro l’eco di un racconto mitologico.

In verità Sansone evidenzia la contrapposizione tra il “divoratore” che poi funge da “cibo” e tra ciò che è “forte” e ciò che è “dolce”.

Bisogna soffermarsi sul fatto che in ebraico la parola dbure, ape, deriva da dbr, discorso, perciò tra gli ebrei le api simboleggiavano l’eloquenza e l’intelligenza dell’uomo. Il miele è quindi il frutto della sapienza.

Forse Sansone col suo racconto intendeva velatamente mettere in guardia i suoi nemici, ammonendoli che anche lui, come il leone, sapeva essere molto “forte”, ma dentro di lui c’erano anche “acume e intelligenza”, rappresentata dal miele. E che chiunque, come il leone, avesse cercato di “divorarlo” avrebbe finito invece con l’“essere mangiato”.

Intendeva dire: “Se vi metterete contro di me sarete sconfitti, perché sono un uomo possente, ma nient’affatto sciocco!”.

L’ENIGMA DEL PIDOCCHIO

L’Ars nova argutiarum[1] è una collezione seicentesca di epigrammi e frasi argute di antichi autori che propone un ampio pot-pourri di epigrammi e altre iscrizioni a scopo ricreativo, indirizzate alla studiosam juventutem rinascimentale. In particolar modo vengono citate le opere retoriche di Cicerone e i componimenti satirici di Marziale, ma anche quelli di autori medievali.

Tra le tante frasi riportate troviamo l’Aenigma de pediculo, l’Enigma del pidocchio.

A pede quae parvo deduxit bestia nomen,

non carmen, carnem sed tamen ingreditur.

Bestia che prese nome dal piede piccolo,

tuttavia non si inserisce in una poesia, ma nella carne.

Pediculus significa “piccolo piede”, ma anche “pidocchio”.

La sciarada gioca sul fatto che piede, pes, in latino, come anche in greco, ha il doppio significato sia di “piede” del corpo umano, ma anche di “piede” della metrica poetica.

Pede parvo, piede piccolo, probabilmente si riferisce al giambo, piede metrico formato solamente da una sillaba breve e una lunga, tipico della poesia satirica e giocosa.

Ritroviamo anche qui l’omonimia che crea il doppio senso e un arguto enigma. Inoltre c’è il parallelo tra carmen e carnem in un originale gioco di parole.


[1] Ars nova argutiarum, collezione di epigrammi e frasi argute di antichi autori, raccolte da R. P. Jacob Masen nel XVII sec. e poi ripubblicate a Colonia nel 1711 a cura di Heinrich Rommerskirchen.

SIC VOS NON VOBIS

La frase si riferisce a un aneddoto che lo Pseudo-Donato riporta nella sua Vita di Virgilio (cap. XVII).

Si racconta che una sera il poeta, molto ispirato, scrisse sulla porta della casa dell’Imperatore Augusto un verso elogiativo. Quando l’Imperatore lo lesse ne fu molto lusingato e chiese chi fosse l’autore, ma, poiché non era firmato, si prese il merito un poetucolo di poco ingegno di nome Batillo, ricevendo dall’Imperatore lodi e denaro.

Quando Virgilio lo venne a sapere, una notte tornò di nuovo davanti alla casa di Augusto e scrisse questi enigmatici versi:

SIC VOS NON VOBIS

Così voi, ma non per voi.

Quando l’Imperatore lo vide chiese cosa volesse dire. Venne chiamato Batillo, ma non seppe che pesci pigliare. Alla fine giunse Virgilio che chiarì l’enigma. In versi disse:

Come io avevo scritto quei versi, ma qualcun altro se ne prese il merito:

Sic vos non vobis nidificatis aves

Sic vos non vobis vellera fertis oves

Sic vos non vobis mellificatis apes

Sic vos non vobis fertis aratra boves

Sono tutti esempi in natura di animali che lavorano, ma qualcun altro se ne avvantaggia. La frase: Sic vos non vobis si cita oggi in caso di plagio, o, più in generale, di chi si approfitta delle fatiche altrui.

L’INDOVINELLO VERONESE

Sappiamo che nel passaggio dal latino all’italiano le declinazioni scomparvero. Ciò si riscontra in quello che viene considerato il primo esempio di componimento in lingua volgare italiana: l’Indovinello veronese.

Si tratta di un testo in corsiva nuova, ritrovato nel 1924 dal paleografo Luigi Schiapparelli sul recto della pagina 3 del codice pergamenaceo LXXXIX custodito nella Biblioteca Capitolare di Verona. Il codice proviene sicuramente da Toledo, e risale al VIII-IX secolo. Fu vergato, però, molto probabilmente, da un monaco della biblioteca veronese, poiché alcuni dei termini usati risentono del dialetto locale.

Se pareba boves,

alba pratalia araba

et albo versorio teneba

et negro semen seminaba.

Spingeva avanti a sè i buoi, arava prati bianchi, teneva un bianco aratro e seminava un nero seme.

L’indovinello rappresenta poeticamente la scrittura, nella quale i buoi sono le dita, i prati bianchi sono le pagine, l’aratro bianco è la penna d’oca e il seme nero sono le lettere scritte con l’inchiostro.

Questa sciarada presenta non poche affinità con il Quadrato, e anche in questo caso sotto l’apparenza di una frase agreste si cela un’arguta metafora.

Sembra quasi che chi inventò l’Indovinello veronese conoscesse il Quadrato e l’avesse interpretato come se il “seminatore” fosse lo stesso scrittore che “tiene” le sue “opere” letterarie. Inoltre, Imparibus vecta Thalea rotis (Ovidio,  Ars am. I 264) era un detto romano con il quale si faceva riferimento all’esametro e al pentametro, considerati le due diverse “ruote” su cui correva il carro di Talia, Musa della poesia. L’“aratro” è interpretato come la penna.

Una sciarada quindi ispirata dal Quadrato e una sua interpretazione alternativa.

S  A  T  O  R
A  R  E  P  O
T  E  N  E  T
O  P  E  R  A
R  O  T  A  S

Lo scrittore tiene la penna, le opere letterarie, le ruote della poesia.

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[1] J. Hani, Il simbolismo del tempio cristiano, trad. T. Buonacerva, Roma, 1996